La strada verso un linguaggio più inclusivo
Sì, ma inclusivo verso cosa? È una domanda più che lecita.
Negli ultimi anni la discussione sull’inclusività del linguaggio si è fatta sempre più accentuata, andando a lambire una grande varietà di ambiti: genere (maschile vs femminile…), disabilità (cecità…), gruppi ristretti di persone accomunate da interessi, necessità e abitudini simili… Come fare a parlare nel modo più adeguato con tutti senza lasciar fuori nessuno?
La risposta è abbastanza semplice: non si può. Non ancora, almeno.
La lingua italiana per il momento non è abbastanza evoluta per essere davvero inclusiva. Poco importa, però, perché la vera domanda non è “come includere sempre tutti?”, ma “fino a quanto il linguaggio usato può essere inclusivo?”.
Generici, ma non troppo
Quando leggiamo o ascoltiamo un messaggio, diamo quasi per scontato che si rivolga direttamente a noi, altrimenti perché dovremmo prestare attenzione? Se il messaggio contiene frasi o parole che non ci rispecchiano, infatti, smettiamo di dargli retta.
Inserire elementi “discriminatori” è spesso una scelta per indirizzare la comunicazione verso il target selezionato. Ad esempio, l’articolo di un blog sportivo intitolato “10 esercizi per avere una tartaruga addominale da paura” si rivolge a uomini (circa dai 15 ai 60 anni), in grado di fare sport e ben disposti nei confronti dell’attività fisica (e probabilmente in procinto di andare al mare).
In alcuni casi, però, l’utilizzo di un termine oppure di una frase è dato dalla consuetudine, dal contesto sociale di chi scrive.
Ne è un esempio il tanto contestato maschile generico, ormai diventato emblema del sessismo linguistico: in una frase come “il 42% degli italiani ha preferito il mare alla montagna quest’anno” è dato per scontato che quegli “italiani” non si riferisca solo ai cittadini maschi, ma anche alle donne italiane. Eppure nessuno si sognerebbe mai di includere la popolazione maschile se la frase volgesse al femminile. Secondo l’Accademia della Crusca, però, non è il caso di farne un dramma: il maschile plurale viene spesso usato come una forma non marcata di genere grammaticale.
Un altro caso di “sessismo linguistico” ampiamente dibattuto è l’uso del maschile per definire alcune professioni: l’avvocato, il medico, il capo di stato, l’ingegnere… Se un tempo solo gli uomini potevano ambire a tali ruoli, adesso il mondo del lavoro è più aperto alle figure femminili.
Non parliamo poi dei termini che cambiano significato a seconda del genere! Ad esempio, “un gatto morto” è un micio deceduto, mentre “una gatta morta” è una donna allegra (da notare che un “uomo allegro” è semplicemente felice).
In tutti i casi appena elencati, è emersa solo la dicotomia maschile/femminile, escludendo dal discorso tutte quelle persone che non si riconoscono nello schema binario del genere sessuale. Il punto è che la grammatica italiana non offre una grande flessibilità: qualcuno ha proposto di terminare le parole con un asterisco, altri hanno provato a introdurre la vocale debole ə, ma senza grandi risultati. Anche perché per le persone dislessiche o ipovedenti costituiscono un ostacolo.

Accessibilità degli strumenti informatici
Accanto ai dibattiti sul genere, un’altra battaglia si sta svolgendo sul tema dell’accessibilità, per facilitare la fruizione dei contenuti digitali anche a chi può avere difficoltà a leggerli. Da tempo, per esempio, è buona pratica inserire dei testi alternativi sulle immagini che possono essere letti dagli strumenti di lettura assistita per gli ipovedenti o da chi non dispone di una larghezza di banda adeguata.
Di recente sono sempre più le piattaforme digitali che integrano tracce audio in pagina per ascoltare quanto scritto e che utilizzano font leggibili anche da chi soffre di dislessia o non vede bene.
Rendere accessibile un sito o un’app, significa permettere a tutti di fruirne i contenuti, indipendentemente dalle loro capacità o dalle condizioni contingenti: che si tratti di una persona sorda che non può sentire file audio oppure di un pendolare che ha a disposizione solo lo smartphone per navigare online, una piattaforma digitale deve sempre essere accessibile.
Ultimo, ma non ultimo, il tema della diversa capacità cognitiva di ciascun lettore è sempre un cult. Quando si scrive per il web o si struttura un sito ci si deve sempre ricordare che non tutti approdano online partendo dalla stessa base cognitiva: qualcuno potrebbe non conoscere bene la lingua, qualcun altro potrebbe avere un’alfabetizzazione bassa, altri potrebbero avere difficoltà a navigare su Internet o a usare un’app.
Alla base dell’inclusività online, quindi, ci sono una user experience intuitiva e un linguaggio semplice e diretto.
Fino a quanto il linguaggio usato deve essere inclusivo?
Fino a quando il buon senso lo permette. Cercare di essere inclusivi verso tutti attraverso il linguaggio, richiederebbe eccessivi artifici linguistici o perifrasi improbabili, quindi è meglio essere selettivi e ponderare bene ogni parola.
Non è solo una questione di “cordialità digitale”, ma un modo per raggiungere nella sua interezza il target di riferimento, qualunque sia l’obiettivo (informativo, commerciale…) e senza escludere nessuno.